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Tutti i grandi economisti classici, da Smith a
Marx a Keynes, hanno considerato la ricchezza e la sua
crescita come un mezzo e non come un fine. Prima di
essere economisti erano umanisti. Il segreto della
crescita, e il solo modo concreto per perseguire il
sogno dell'abbondanza, secondo loro, era il progresso
tecnico. Sostanzialmente, si tratta di sostituire le
macchine agli uomini: una possibilità che anche gli
antichi greci e romani prospettavano, considerandola
però o utopistica o dannosa. "Se ogni attrezzo potesse
eseguire su ordinazione, o per suo proprio conto, il
compito che gli è assegnato, l'architetto non avrebbe
più bisogno di manovali, né il padrone di schiavi. Se la
spola potesse correre da sola sulla trama, l'industria
non avrebbe bisogno di operai" scriveva Aristotele. E
l'imperatore Diocleziano comandava all'inventore di un
marchingegno che permetteva di sollevare meccanicamente
le immani colonne dei suoi templi, di bruciare quel suo
progetto, che avrebbe provocato disoccupazione e fame
"per i suoi poveri proletari". Più recentemente
l'economista Sismonde de Sismondi configurò l'esito
estremo dell'automazione in una metafora settecentesca:
il re d'Inghilterra che, girando una manovella, produce
tutto quanto è necessario ai suoi sudditi. E si
domandava: che ne sarà dei sudditi? Ai nostri tempi,
John Maynard Keynes formulò invece una profezia
ottimistica. Il progresso tecnico era andato ormai tanto
avanti da far prevedere che assai presto gli uomini
avrebbero potuto procurarsi tutti i beni necessari alla
loro sopravvivenza e al loro comfort con due o tre ore
di lavoro al giorno, dedicando il resto al riposo e a
cose più serie, come l'amore e la
cultura.
Breve storia di un
secolo
In effetti, se c'è un secolo nel quale
ci si è più avvicinati a quel sogno, è proprio il
nostro, quello di cui abbiamo appena doppiato il capo:
il Novecento. Nell'insieme del Novecento la produzione
complessiva di beni e servizi nel mondo è cresciuta del
2,9 per cento all'anno e il prodotto pro-capite dell'
1,4%, rispetto all'1,3 e allo 0,8 % rispettivamente
nell'Ottocento; e a cifre molto vicine al niente per
cento nella media dei secoli precedenti. Se come indice
sintetico della "felicità pubblica" si assumesse quello
della durata media dell'esistenza ( per la ricchezza
quello del prodotto nazionale è altrettanto grossolano)
constateremmo che essa è aumentata da meno di 40 anni
nel 1820 a circa 50 nel 1900 e a 77 nell'ultimo decennio
del XX secolo nei paesi industriali (60 nei paesi
arretrati). Naturalmente, parlare del Novecento
come di un periodo omogeneo sarebbe del tutto
fuorviante. Il "secolo lungo" che abbiamo alle spalle
deve essere diviso, per quanto riguarda lo sviluppo
economico e il benessere sociale dei paesi capitalisti
più avanzati, in quattro fasi distinte: una prima belle
époque di prosperità economica e di aumento generale
medio del benessere, dal 1880 al 1914; un'età dei
torbidi, di guerre, crisi, disoccupazione, stragi e
conflitti sociali e ideologici, fino al 1945; una
seconda belle époque di grande prosperità economica di
relativa pace mondiale e di parallelo miglioramento del
benessere sociale, nonostante l'incombente minaccia
della catastrofe nucleare, fino agli anni Settanta; e
una quarta fase, che è quella nella quale viviamo, e
alla quale non sappiamo ancora dare un nome. Si tratta
di una nuova età dei torbidi? O di una rinnovata belle
époque? Il quadro che ci si presenta non è né
catastrofico, né rassicurante. Certo: non c'è stata
alcuna catastrofe, né alcuna depressione paragonabile a
quella tragica che segnò gli anni Trenta. Negli anni
Settanta l'inflazione e la crisi petrolifera avevano
fatto temere che il sistema capitalistico potesse
precipitare in una nuova crisi verticale. Ma già verso
la fine del decennio l'economia riprendeva il cammino
della crescita. Tuttavia, a un ritmo sensibilmente e
progressivamente più lento: 5% negli anni Sessanta, 3,6%
nei Settanta, 2,8% negli Ottanta, 2% nei primi cinque
anni dei Novanta. Inoltre è emerso per la prima volta
nella storia lo spettro dei limiti della crescita nel
senso della sua sostenibilità ecologica. Infine, mente
la crescita ha continuato ad aumentare, si sono fatti
sempre più evidenti i segni di un peggioramento della
qualità sociale. Molti sono gli indizi di aumento del
disagio sociale. Nella prima belle époque era stridente,
tra la fine del secolo XIX e l'inizio del XX, il
contrasto tra la relativa soddisfazione della
maggioranza della popolazione e l'inquietudine talvolta
disperata dei suoi intellettuali. Se si può avanzare una
opinione azzardata, oggi si ha la sensazione di una
inquietudine delle masse cui fa riscontro un
narcisistico e soddisfatto compiacimento degli
"intellettuali".
Lo spartiacque degli anni
Settanta
Comunque sia, è sempre più evidente
che il quinquennio 1970-75 ha segnato uno spartiacque,
tra una epoca di convergenza della crescita economica e
del benessere sociale e una della quale il meno che si
possa dire è che la intensità e la direzione delle due
grandezze si è fatta incerta. Che cosa salta agli
occhi, nel gettare uno sguardo al mondo immediatamente
precedente quel quinquennio e a quello immediatamente
successivo? Io direi, la "convergenza" e rispettivamente
la "divergenza". Nel primo quinquennio - beninteso, nei
paesi del capitalismo avanzato - si assisteva a una
felice convergenza delle grandezze più significative
della prosperità e del benessere sociale. Procedevano
monotonicamente, nello stesso senso e grosso modo allo
stesso ritmo, la produzione globale, la produttività,
l'occupazione, i profitti, i salari, nella media
generale. Tendenze divergenti nei vari settori, come per
esempio, nell'agricoltura e nell'industria, si
compensavano. Gli squilibri che attiravano maggiormente
l'attenzione e le preoccupazioni erano quelli regionali:
che erano assunti nella categoria dei "ritardi" e
affidati alle politiche compensatrici degli Stati
nazionali. Anche le quote di reddito prelevate per le
spese sociali, per alimentare il nuovo Stato del
benessere, aumentavano, dove più, dove meno,
parallelamente all'aumento della ricchezza
nazionale. A partire dalla metà degli anni
Settanta il quadro è cambiato. In Europa, la crescita si
è accompagnata a una disoccupazione di massa. Negli
Stati Uniti, a una esplosione della diseguaglianza. Sia
in Europa che negli Stati Uniti si è avuta una
degradazione della qualità sociale: infrastrutture
pubbliche, condizioni ambientali e urbanistiche, livello
e qualità dell'istruzione. Che cosa è avvenuto perché
si verificasse questo brusco cambiamento di
scena? Per capirlo dobbiamo cominciare dalle ragioni
della crescita "felice" nel mondo di
ieri. Penso che la ragione essenziale,
scandalosa per il pensiero liberista oggi dominante,
stia nel fatto che il capitalismo della seconda belle
époque era guidato e orientato dalla politica. Quella
convergenza non era il risultato di un processo
"naturale", ma dell'azione consapevole delle istituzioni
pubbliche. Sul piano internazionale, esso nasceva dalle
istituzioni e dalle regole stabilite a Bretton Woods,
subito dopo la guerra, grazie a una saggezza che era
totalmente mancata dopo la prima guerra mondiale. A
livello nazionale, era il prodotto della consapevole
azione della politica economica degli Stati. A livello
sociale, era il frutto di un compromesso, implicito e
talvolta esplicito tra lavoratori e imprese: un
compromesso reso possibile dall'organizzazione
"fordista" del lavoro da una parte; e
dall'organizzazione "manageriale" dell'impresa
dall'altra. Ebbene, sono proprio questi tre sistemi
istituzionali che vengono a mancare, più o meno nello
stesso periodo, nel corso degli anni Settanta. Le
ragioni sono complesse, ma in uno sforzo eroico possiamo
provarci a sintetizzarle.
L'abdicazione
della politica
Il regime dei cambi fissi,
anzitutto. Sono gli Stati Uniti stessi, che ne erano il
pivot, ad affondarlo. Si tratta di un caso classico di
sfruttamento di una posizione dominante, di passaggio da
una egemonia a una supremazia. Nei primi decenni del
dopoguerra gli Stati Uniti avevano gestito molto
responsabilmente la loro posizione di gran lunga
dominante nell'economia mondiale, pagandone i costi.
Avevano contribuito decisamente a ricostituire le forze
del capitalismo europeo e di quello giapponese, che
progressivamente diventavano sempre più loro rivali.
Assicurando il dollaro a un rapporto fisso con l'oro,
avevano dato al sistema mondiale dei cambi un fulcro che
garantiva stabilità al sistema mondiale degli scambi.
Venne però il momento in cui le grandi imprese
multinazionali americane, che soffrivano la concorrenza
europea e giapponese, a furia di mordere il freno, lo
ruppero. La loro pressione, durante la crisi del
dollaro, all'inizio degli anni Settanta, indusse un
Presidente "imperiale" ad abbandonare i vincoli della
responsabilità mondiale per fare valere in pieno,
rispetto alle altre economie, la superiorità del
dollaro. I profeti del neoliberismo, come Milton
Friedman, salutarono l'avvento del regime dei cambi
flessibili come l'apertura di una fase di stabilità
mondiale, assicurata dall'autoregolazione dei mercati
valutari. In realtà, i venti anni seguenti hanno visto
120 crisi valutarie maggiori: intendendo per tali quelle
nelle quali una moneta si svaluta di una quota superiore
al 25 per cento del suo valore. Le imprese
multinazionali americane si erano intanto create, per
conto proprio, un mercato finanziario sciolto dai legami
della politica monetaria nazionale. La creazione del
mercato dell'eurodollaro fu la prima fatale breccia
nella diga che si opponeva alla libertà dei movimenti di
capitale internazionali. La diga crollò,
progressivamente, dappertutto.
Si innesta qui il
secondo aspetto. Con la deregolazione dei movimenti di
capitale si spalanca un campo aperto di competitività
mondiale, che mette tutte le economie nazionali "a
disposizione" del capitale, senza barriere. Da un regime
di scambi mondiali basato sulla veneranda teoria dei
costi comparati, che presuppone libertà di scambio dei
prodotti, ma non dei fattori produttivi (capitale e
lavoro) e assicura quindi una competitività relativa a
una data distribuzione internazionale di quei fattori,
ci si muove verso un regime basato sui costi e sui
vantaggi comparati assoluti, che mette in diretta e
immediata concorrenza i lavoratori e i capitalisti di
tutto il mondo. In questo campo spalancato a tutti i
venti ingigantisce il potere "apolitico" e anonimo dei
mercati finanziari e si riducono drasticamente i margini
di manovra economica del potere "politico" degli Stati
nazionali. Le politiche monetarie nazionali devono tener
conto dei movimenti dei cambi e dei tassi d'interesse,
che sono ormai largamente sottratti al loro controllo e
dipendono in larga misura dalle aspettative degli
"operatori" dei grandi mercati finanziari. Aspettative
di che cosa? Dei profitti di breve e di brevissimo
termine, influenzate dalle concrete vicende
dell'economia reale ma anche, e sempre più, da correnti
emotive: paure, interpretazioni distorte, informazioni
imperfette, malumori, euforie, speranze, errori. In
questi casi, la funzione stabilizzatrice (il feed back
positivo) attribuita dai testi scolastici alla saggezza
intrinseca dei "mercati" nella valutazione oggettiva
dell'efficienza delle economie, diventa una funzione
destabilizzatrice (un feed back negativo) promossa dagli
effetti cumulativi delle emozioni. I governi rinunciano
a una influenza attiva sulla politica monetaria,
lasciandola nelle mani "neutrali" delle banche
centrali. Quanto alla politica fiscale intesa nel
senso lato, della manovra complessiva del bilancio
statale: è naturale che, nel clima di competitività a
tutto campo aperto dalla globalizzazione, il mondo delle
imprese resista accanitamente a una pressione fiscale
della spesa pubblica che pone limiti alle risorse
"private" necessarie a sostenere le sempre crescenti
esigenze di competitività.
Anche i sindacati
vedono ridursi progressivamente il loro potere
negoziale. Ciò sia a causa della globalizzazione, che li
sottopone al ricatto indiretto del basso costo del
lavoro nei paesi più poveri; sia, soprattutto, al
radicale mutamento dell'organizzazione produttiva: alla
crisi dell'organizzazione industriale pesante, fordista,
e all'emergenza di una nuova organizzazione flessibile,
che rivoluziona la natura del lavoro. Come la
globalizzazione dell'economia, innescata dalla
deregolazione dei movimenti di capitale, comprime lo
spazio; così la nuova rivoluzione tecnologica, innescata
dallo sviluppo dell'informatica elettronica, comprime il
tempo. L'essenza della produzione just-in-time è,
appunto, l'immediatezza. Ciò permette di comprimere una
enorme quantità di informazioni rendendo possibile la
loro gestione da parte di un solo soggetto. Di qui
alcune importanti conseguenze. Là dove occorrevano molti
uomini per produrre pochi beni - al limite uno, come il
famoso modello T - in grandi concentrazioni produttive,
occorrono oggi pochi uomini per produrne molti e diversi
in una rete di centri più o meno autonomi, interni o
esterni all'impresa principale. Là dove a ciascun
lavoratore era assegnato un solo compito, gli sono
affidati oggi compiti diversi e complessi. E dunque, a
una produzione molto differenziata corrisponde un numero
di lavoratori ridotto con qualifiche e competenze
diverse. Parallelamente al mercato dei beni e dei
servizi, anche il mercato del lavoro si diversifica:
nelle mansioni, nei tempi, nei luoghi. Diventa sempre
più difficile applicare a situazioni eterogenee forme
contrattuali omogenee e costringere entro una
organizzazione di massa forme organizzative articolate.
Tutto ciò aumenta oggettivamente il potere contrattuale
dell'imprenditore e riduce quello del sindacato. Negli
ultimi decenni la quota dei lavoratori iscritti ai
sindacati si è ridotta dappertutto. Il mercato del
lavoro, che nei primi decenni del dopoguerra era
diventato un seller's market, un mercato del venditore
della forza di lavoro è ridiventato un buyer's market,
un mercato del compratore (capitalista). Un rapporto di
forza che aveva assunto spiccate caratteristiche
"politiche" è ridiventato un rapporto di forza
largamente abbandonato alle relazioni di mercato: un
mercato rimercificato. Dunque, la deregolazione
spiega il paradosso del nostro tempo: una crescita
economica che genera malessere sociale. Quali sono le
caratteristiche principali del malessere sociale? Ne
esamineremo tre: la mala occupazione, la diseguaglianza,
la disqualità sociale.
Il mito della
distruzione creatrice
Torniamo alla spola di
Aristotele e alla manovella del re d'Inghilterra. E ai
sostenitori della fine del lavoro, che fanno lo stesso
errore dell'imperatore Diocleziano. Sì, certo, le
macchine risparmiano lavoro. Permettono di fare le
stesse cose con tanto lavoro in meno. Ma permettono
anche di fare tante cose diverse in più. E tante cose in
più, significa tanto lavoro in più. Se si perde lavoro
da una parte, insomma, lo si riguadagna
dall'altra. Prendiamo la spoletta volante
dell'operaio John Kay, mezzo tessitore, mezzo meccanico
A metà del Settecento, John Kay realizza il sogno di
Aristotele, un'invenzione che aumenta del 20-30 per
cento la produttività della tessitura. I suoi compagni
disoccupati si infuriano, lui deve scappare, ma la sua
invenzione si diffonde e la filatura del cotone non
riesce a tener dietro agli ordinativi dei tessitori. Si
forma una strozzatura della produzione, i prezzi dei
tessuti salgono, le consegne si allungano. Ed ecco che
Heargraves inventa la spinning Jenny, che centuplica il
prodotto. Però la Jenny è azionata a mano, dipende
interamente dall'energia motrice dell'uomo. Provvede
Archwright con la water frame, una macchina a energia
idraulica azionata da una coppia di cavalli. Ma il
marchingegno è ancora grossolano. Ci vuole James Watt,
chiamato da Archwright, per sostituire l'energia
idraulica con la prima macchina a vapore. Così
ingigantisce la produzione tessile, e la storia
continua. Si determinano nuove strozzature
nell'imbiancamento delle stoffe. Ci vuole troppo latte,
troppe mucche, troppi prati. Provvede la nuova industria
chimica, con il cloro prima, al posto del latte, e poi
con i coloranti sintetici che i tedeschi producono
sintetizzando l'alizarina, come base di un bel colore
rosso. Esplode la produzione e con quella i profitti,
fino a che i ricercatori (non si tratta più di modesti
artigiani, ma di signori in camice bianco) operano la
sintesi dell'indaco; e di passaggio, nel solco delle
loro ricerche, inventano l'aspirina, che apre le nuove
grandi strade dell'industria farmaceutica. Così si
sgrana la logica della rivoluzione industriale: le
distruzioni creatrici si succedono l'una all'altra,
lungo una linea sempre più avanzata, sempre più lontana
dal luogo d'origine. La crescita si svolge attraverso
squilibri successivi. Questo processo, Alfred
Sauvy lo ha icasticamente rappresentato nel suo modello
del travaso (déversement). Fino a due secoli fa l'80%
della popolazione era occupata nell'agricoltura. Quando
l'agricoltura è stata investita da una poderosa
accelerazione della produttività, i prezzi dei prodotti
agricoli sono crollati, i contadini hanno abbandonato le
campagne e sono affluiti nelle città dove hanno
affollato le fabbriche dell'industria. Ma anche
l'industria è stata investita dall'aumento della
produttività che ha spopolato le fabbriche, facendo
rifluire il lavoro nel vasto campo dei servizi, dove gli
impiegati si sostituivano agli operai. Ma che succederà
se anche quei servizi verranno
automatizzati? La risposta degli economisti è
lì, pronta: si produrranno nuovi beni e nuovi servizi,
oggi sconosciuti, per soddisfare nuovi bisogni. La
fabbrica dei bisogni umani è inesauribile. E dunque,
purchè la domanda sia sostenuta dalla politica economica
(secondo i keynesiani) o purchè ai prezzi e ai salari
sia lasciata la flessibilità necessaria per adeguarsi
alla domanda e all'offerta (secondo i monetaristi), il
sistema tenderà sempre alla piena occupazione. In altri
termini: la disoccupazione tecnologica non esiste. E
invece esiste, e come. Primo, perché "tendere" è una
parola-trappola. Si può tendere verso qualche cosa che
non si raggiunge mai. Una cosa che tende ad esserci, ma
non c'è, non è rassicurante. C'è chi resta disoccupato,
mentre la disoccupazione "tende" a sparire, per tutta la
vita. Qual è il costo di quelle frustrazioni
"temporanee"? Chi lo paga? Chi ne risponde? Il processo
della distruzione creatrice non è un fiume che scorre
tranquillo tra argini sicuri. È un torrente precipitoso,
che può gonfiarsi o restare a secco, tracimare o
impaludarsi. Quando poi arriva la compensazione, non
compensa di solito chi ha perduto il posto, ma, se tutto
va bene, e se esistono, i suoi figli. Secondo. È
proprio vero che i bisogni sono inesauribili? La verità
è che ci sono bisogni soggetti a saturazione che, man
mano che sono soddisfatti, diminuiscono d'intensità,
seguendo il sacrosanto principio dell'utilità marginale
decrescente. Sono quelli che Keynes ha chiamato bisogni
assoluti, e Harrod, più elegantemente, bisogni
democratici, perché tutti li hanno più o meno in egual
misura, e per tutti possono essere soddisfatti, più o
meno, in egual misura. Questi non sono inesauribili: una
volta che ha mangiato e bevuto, anche Lazzarillo da
Tormes si sazia. Ma poi ci sono i bisogni relativi e
competitivi, quelli che non sono indipendenti dai
bisogni degli altri, ma consistono proprio nel mantenere
o nell'accorciare le distanze dagli altri: to keep up
with the Jones, si dice in America, con lo sguardo
rivolto ansiosamente al giardinetto, all'auto e alla
macchina rasa-prati del vicino. Questi, davvero, sono
inesauribili: ma sono anche frustranti, perché
determinano una condizione permanente di ansia
insoddisfatta. La crescita dei beni inventati per
soddisfarli genera malessere. Terzo (ed è l'aspetto
più importante). Lo stesso Sauvy spiega che, per
svolgersi in modo accettabilmente fluido, il flusso dei
lavoratori "travasati" deve affluire in settori dove
produttività, salari e produzione sono più alti che nei
settori di provenienza. Queste condizioni si sono
realizzate nel passaggio dall'agricoltura all'industria;
ma non si realizzano affatto in quello successivo,
dall'industria ai servizi. Nella media di questo settore
estremamente eterogeneo, produttività e salari risultano
inferiori. E ciò pone ai lavoratori una sgradevole
alternativa, tra l'accettare remunerazioni più basse per
ottenere un posto di lavoro, o rifiutarle, restando
disoccupati. Il primo di questi esiti ha prevalso in
America, il secondo in Europa. Insomma: il travaso può
assicurare, alla lunga, la piena occupazione, non
necessariamente la buona occupazione. La cosa più
probabile, anzi, è che la crescita, in una società
abbondante di merci e colma di rifiuti, apra vaste zone
di occupazione mal pagata. Quarto: il concetto stesso di
piena occupazione - che presuppone una certa omogeneità
del lavoro - perde significato. Esso si adatta bene a un
tipo d rapporto di lavoro dipendente, di durata e
caratteristiche predeterminate; e sempre meno bene a
forme di lavoro a tempo variabile, con retribuzione
flessibile e con modalità
differenziate.
L'impatto della rivoluzione
informatica
Riprendiamo qui il discorso sulla
rivoluzione informatica di fine secolo. L'organizzazione
fordista del lavoro assicurava, al costo di una
disumanizzante alienazione - il lavoro sbriciolato,
meccanizzato e trasognato della catena di montaggio - un
alto grado di sicurezza del posto di lavoro e di
progressione del reddito dei lavoratori. La produzione
di massa, inoltre, facilitava la contrattazione
collettiva, rafforzando il potere contrattuale dei
sindacati (proprio il contrario di quel che gli
inventori del fordismo-taylorismo si erano attesi). Il
consumo di massa integrava i lavoratori in una sempre
più vasta e sempre meno discontinua classe media: una
classe un po' filistea, ma fiduciosa nel futuro suo e
soprattutto dei suoi figli: la classe del grande
consenso. Ora, è proprio questo paradigma sociale che la
rivoluzione informatica, sostituendo al modello della
standardizzazione il modello della differenziazione, ha
mandato in pezzi. A una dinamica sociale di convergenza
ne è subentrata una di diffrazione. Alla
frammentazione delle operazioni nello spazio si è
sostituita la loro compressione nel tempo. Al lavoro
spersonalizzato dell'uomo-macchina ridotto a una
operazione ripetitiva, il lavoro coinvolto dell'uomo
integrato nel gruppo, che gestisce più operazioni con un
certo grado di discrezionalità. Alla monotonia del
primo, lo stress del secondo. Alla sicurezza del lavoro,
la precarietà. Al lavoratore semiqualificato di massa
gli operatori distribuiti lungo una gamma estesa di
qualifiche, dalle più alte alle più basse. A un sistema
di salari gravitante verso la produttività media
dell'impresa, un sistema di retribuzioni che riflette
una vasta gamma di competenze e di "scarsità"
individuali. Dunque, il lavoro non è più quello
del giovane Charlot. È meno monotono e spersonalizzante.
Ma è anche meno protetto. Si è "riqualificato". Ma si è
anche "rimercatizzato". Ci si può anche spingere, come
hanno fatto alcuni ad affermare che la vecchia
alienazione si è dissolta in un'alienazione di grado
superiore. Se l'epoca fordista aveva compiutamente
realizzato la separazione marxiana della forza di lavoro
dal lavoratore, mettendola a disposizione del
capitalista, oggi il capitalista ha a disposizione un
lavoratore che ha introiettato, come un computer, la
logica della produzione e che, come un computer, è
capace di azioni correttive autonome. Dunque, un
lavoratore intero, corpo e anima, azione e pensieri, e
non più una grezza forza di lavoro. Un lavoratore?
Dobbiamo ormai abbandonare questa immagine individuata
in un personaggio-simbolo, come era raffigurata nei
vecchi manifesti socialisti. La rivoluzione informatica
ha distrutto il proletariato. E ha distrutto il mercato
del lavoro. Non c'è propriamente più un mercato del
lavoro. C'è una gamma di mercati del lavoro
corrispondenti a qualifiche e a figure diverse, che si
dispongono lungo una gamma interrotta da grandi
discontinuità. C'è un mercato del lavoro simbolico
(usiamo qui la felice espressione di Reich) di
privilegiati, costituito da un'offerta scarsa e
"posizionale", che dà luogo a remunerazioni più
assimilabili al concetto di "rendita" che di "salario":
le star manageriali, mondane, sportive, professionali,
l'èlite dei campioni rappresentativi, remunerati molto
di più per ciò che rappresentano nell'immaginario
collettivo, che per ciò che realmente sono e fanno. Le
remunerazioni di questi "attori" si determinano su un
mercato molto più simile a quello degli oggetti d'arte
che a quello dei beni riproducibili. Essi costituiscono
una nuova classe agiata, nel senso vebleniano, che si
distacca dai comuni mortali per vivere in un olimpo di
privilegi quasi-divini. Quando si guadagnano redditi
personali equivalenti a quelli di milioni di uomini
messi assieme; vuol dire che si è persa ogni connessione
tra la prestazione e la sua valorizzazione, e che il
rapporto di lavoro non ha più niente di lavorativo, nel
senso di un do ut des. È diventato un appannaggio
principesco, un beneficio feudale, una rendita
mandarinesca. Si dice ancora "mercato". Ma si tratta di
una lotteria.
Dalla piena occupazione alla
mala occupazione
All'estremo opposto, c'è un
mercato - questo sì che lo è, nel senso classico - di
servizi dequalificati, i cui salari non sono
commisurabili alla "produttività", ma alla pressione
dell'offerta, rappresentata da una massa di disoccupati
potenziali, costantemente alimentata dai "rifiuti" del
processo produttivo - quelli che non ce la fanno a
reggersi sul tapis roulant della competizione - e
dall'ormai costante afflusso degli immigrati (Marx
avrebbe detto semplicemente, un'armata di riserva).
Questo è un nuovo proletariato: ma, si badi, non un
proletariato marxiano, integrato nella produzione, di
cui rappresenta il cuore pulsante. Piuttosto, un
proletariato tardo-romano, disponibile e ondeggiante,
tendenzialmente turbolento, passivo, border line tra la
società e la secessione sociale. E
naturalmente, in mezzo, c'è ancora il mercato del lavoro
formale, organizzato, coi suoi contratti ma sempre meno
collettivi e omogenei, con i suoi sindacati dei datori e
dei lavoratori, sempre meno incisivi e decisivi; con i
suoi riti, liberisti o socialdemocratici, sempre più
rituali. In quello, il punto di riferimento
gravitazionale resta la "produttività" del lavoro,
intesa come il rapporto aritmetico tra il risultato
economico globale dell'impresa e il numero dei suoi
addetti. Ma i lavoratori faticano sempre più a tenervi
dietro con i salari a causa dell'inasprimento della
concorrenza mondiale, che obbliga le imprese a
comprimere al massimo i costi del lavoro e della
pressione indiretta dei lavoratori dei paesi più poveri,
gettati dalla globalizzazione nella mischia: e
costituita dalla minaccia costante del trasferimento
delle attività produttive verso quei paesi. Non
stupisce che l'effetto combinato di questa diffrazione
del lavoro e dei suoi mercati sia una tendenza a
contenere, se non a deprimere, il livello medio dei
salari, e una tendenza, molto più marcata, alla loro
diseguaglianza. Alla fine di questo discorso,
ci si può chiedere: il travaso ha funzionato, o no? E si
può rispondere che sì, ha funzionato là dove, come negli
Stati Uniti e in Gran Bretagna, lo si è pagato con un
aumento della diseguaglianza, mentre non ha funzionato,
o ha funzionato molto peggio nell'Europa continentale,
dove i lavoratori sono riusciti a frenare le due
tendenze, alla compressione dei salari e all'aumento dei
loro differenziali, al costo della disoccupazione.
Insomma, se intendiamo per mala occupazione una
condizione generale di precarietà, di diseguaglianza e
di compressione dei salari, dobbiamo concludere che
questa è il costo della piena occupazione. Piena, non
buona. Dunque, dobbiamo ribadire che i teorici
catastrofisti della "fine del lavoro" hanno torto. Il
travaso funziona, ma "in salita": con alti costi
sociali. Hanno avuto però, e purtroppo, torto
anche coloro che si attendevano dal progresso tecnico
una felice fine del lavoro, come Keynes, con la sua
predizione radiosa. Del lavoro, inteso come merce da
vendere e da comprare, non si vede proprio la fine. La
verità è che l'ideale keynesiano comporta che si lavori
di meno per il mercato, lasciando sempre più spazio
"all'amore e alla cultura", alle "grazia della vita",
come diceva Stuart Mill. Non è certo questo il dono
della rivoluzione informatica. Essa libera energie, ma
per reinvestirle, in forma più raffinata, nel mercato.
Alla grossolana zampogna di Pan è subentrato l'armonioso
flauto di Apollo. Ma si suona sempre a
pagamento.
L'esplosione delle
disuguaglianze
È molto probabile che l'ultimo
quarto del secolo appena chiuso sarà ricordata come
quella nella quale è riesplosa la diseguaglianza. Le
grandi ristrutturazioni del mercato del lavoro e del
mercato dei capitali, compiute sotto il segno della
deregolazione, hanno liberato forze dirompenti. Ciò, sia
alla scala mondiale, sia nell'ambito dei paesi
capitalistici più avanzati, e specialmente in quello più
avanzato di tutti: gli Stati Uniti
d'America. La diseguaglianza mondiale è
rozzamente ma significativamente indicata dal rapporto
tra il "quintile" della popolazione più ricco e il
quintile più povero. Nel 1960 il rapporto era di 30 a 1.
Nel 1991 era salito a 61. Nel 1997, a 86. Negli Stati
Uniti, "all'improvviso nel 1968, come una scossa in un
ghiacciaio rimasto a lungo immobile, l'ineguaglianza ha
cominciato ad aumentare" e nel corso dei due decenni
successivi si è diffusa e intensificata in modo
drammatico e sorprendente. I salari reali sono
diminuiti: tra il 1973 e il 1993 dell'11% per i
lavoratori maschi adulti a tempo pieno, mentre il
prodotto reale pro capite del paese aumentava del 29%.
Non era mai accaduto nella storia documentabile
dell'economia americana. Nel 1961 il Presidente
Kennedy parlava "di un'onda che sale sollevando tutte le
barche"; Ma dal 1973 in poi, mentre l'onda del prodotto
pro capite medio saliva, le barche dei salariati
scendevano precipitosamente e incessantemente. Solo
l'ingresso in massa delle loro mogli nel mercato del
lavoro, a salari ancor più bassi, riusciva a frenare,
non ad arrestare, la contrazione del reddito familiare.
In effetti, in venti anni, l'ineguaglianza tra i due
poli della distribuzione del reddito familiare è
aumentata di un terzo. Se dal reddito ci si sposta a
considerare la ricchezza, si constatano tendenze ancor
più evidenti alla divaricazione. All'inizio degli anni
Novanta la quota di ricchezza detenuta dall'1% della
popolazione era raddoppiata, rispetto agli anni
Settanta, passando dal 20 al 40%. Non parliamo poi dei
divari di reddito tra i signori del business, i CEO
(Chief Executive Officers) e i comuni mortali, operai o
impiegati. A metà degli anni Novanta il rapporto aveva
raggiunto il livello 187 a 1. Dall'insieme dei dati
disponibili emerge chiaramente che l'America ha
imboccato, a partire dagli anni Settanta, una svolta a U
su tutte le piste indicative della distribuzione del
reddito: redditi di lavoro orari settimanali e annuali,
personali e familiari, divari di reddito tra bianchi e
neri, distribuzione personale della
ricchezza. "Nessuna altra economia di mercato,
neppure nel mondo dei paesi in via di sviluppo, ha
realizzato un così drammatico salto
nell'ineguaglianza".
Il paese europeo più
vicino all'esperienza americana nell'ultimo quarto di
secolo è la Gran Bretagna. Investito anch'esso in pieno
dalla "controrivoluzione liberista", esso ha visto in
venti anni, dal 1970 al 1990 diminuire del 10% i redditi
della fascia più debole della popolazione, mentre quelli
della fascia più forte aumentavano del 65%. Secondo
l'OCSE nel Regno Unito "l'ineguaglianza dei redditi era,
nel 1990, più accentuata di quanto mai fosse stato dopo
la seconda guerra mondiale". Negli altri paesi
dell'Europa occidentale, lo Stato sociale è riuscito a
frenare l'aumento delle diseguaglianze, che tuttavia si
sono accentuate un po' dappertutto. Nelle nuove
condizioni di un mercato del lavoro diventato
sfavorevole ai lavoratori, l'Europa ha pagato questa
frenata con una disoccupazione di massa che le
restrizioni monetarie e fiscali rese necessarie dai
vincoli di Maastricht hanno contribuito a determinare, e
che solo oggi comincia ad essere riassorbita con la
ripresa della crescita. Ma anche in Europa si sono
diffuse condizioni di esclusione, di "fragilità sociale"
delle fasce più deboli, di povertà. Le cifre - ad
esempio i 600 mila "adulti senza casa che vivono sulla
strada" nella ricca Francia - non sono più eloquenti
dello sguardo che ciascuno di noi può rivolgere alle
strade delle nostre città: alla ricomparsa
dell'accattonaggio nelle strade rutilanti del centro
(come nei romanzi di Zola); dei barboni, dei mendicanti,
dei drop-out, e, naturalmente, degli immigrati e dei
rifugiati: un esercito che ha cambiato il volto delle
nostre città in pochi anni.
È evidente che
la prosecuzione di tendenze come quelle che hanno
prevalso negli ultimi decenni, all'aumento delle
diseguaglianze economiche, minaccia di corrodere le
giunture, i nodi della coesione sociale. Nessuno ha mai
potuto misurare quale quota di egualitarismo, da una
parte, e di ineguaglianza, dall'altra, una società possa
sopportare, senza reagire in modo esplosivo e
incontrollato. Ma certo esistono, nelle nostre società
complesse, limiti di sostenibilità sociale, nell'uno e
nell'altro senso. I limiti di sostenibilità delle
diseguaglianze sono certamente molto più stringenti che
nelle società precapitalistiche, che potevano
sopportarne di ben più stridenti delle nostre. Ma è
appunto la complessità che, a un certo punto, entra in
gioco: e cioè la capacità che le società capitalistiche
e democratiche hanno conquistato, di crescere di
potenza, conservando la coerenza: di garantire la fitta
rete delle interdipendenze che ne costituisce il sistema
nervoso. È la lacerazione di questa rete che costituisce
oggi, insieme con la minaccia ecologica, il rischio più
grave e più imminente. Non a caso si è cominciato a
parlare, da tempo, a proposito delle tendenze
disegualitarie che hanno investito le società del
capitalismo avanzato, di "frattura sociale", di
"secessione sociale": del pericolo, cioè, che pezzi
interi di società si stacchino verso l'alto o verso il
basso, in un processo di "semplificazione" che
somiglierebbe molto all'imbarbarimento. Non
manchiamo di segni inquietanti. Da una parte si
manifestano tendenze alla secessione della ricchezza, in
forme estreme, di tipo medievale. Thurow riferisce dati
sorprendenti di questo tipo di secessione negli Stati
Uniti. Circa 30 mila comunità di americani vivono ormai
in vere e proprie cittadelle, circondati da mura e
protette da polizie private (il numero di vigilantes
privati eccede ormai quello dei poliziotti statali e
federali) e da armi speciali di difesa. In California,
una di queste fortezze è munita di congegni di
artiglieria, una specie di balestra (si chiama bollard)
che scocca proiettili lunghi quasi un metro contro
veicoli non autorizzati. Dalla parte opposta, c'è la
secessione forzata delle prigioni (sempre negli Stati
Uniti, più di ottocentomila persone) o quella volontaria
della criminalità organizzata, diventata ormai - anche
grazie al gigantesco movimento di capitali "sregolati",
una potenza economica mondiale.
La crisi
della coesione sociale
Quella che abbiamo
definito la controffensiva capitalistica di fine secolo
ha dunque profondamente alterato la distribuzione del
lavoro e quella dei redditi, nel senso della
diseguaglianza. Ma essa ha alterato anche la
bilancia tra beni pubblici e beni privati
nell'allocazione delle risorse, e tra settore privato e
settore pubblico nell'organizzazione
sociale. Già alla fine degli anni Sessanta
Galbraith aveva individuato, nel capitalismo delle
grandi Tecnostrutture, la tendenza a gonfiare una
domanda opulenta di beni privati a scapito di una
offerta "squallida" di beni pubblici. Allora, però,
questa tendenza era controbilanciata, non solo
nell'Europa del welfare State, ma anche nell'America
della great Society, da una forte corrente di domanda
democratica di diritti sociali, di beni pubblici, di
servizi collettivi, che gonfiava la spesa pubblica ed
elevava la pressione fiscale. La prima salì, tra il 195O
e il 1975, dal 20 al 27% del Pil. La seconda, dal 22 al
27%. Oggi, in piena controffensiva capitalistica, la
tendenza galbraithiana si sta dispiegando, di fronte a
resistenze democratiche indebolite.
Perché? Anzitutto, lo spazio della spesa sociale,
nella nuova fase del "turbocapitalismo" finanziario e
mondializzato, si é drasticamente ristretta. Le
politiche economiche degli Stati sono oggi sottoposte a
un giudizio severo dei "mercati" che castiga ogni
comportamento eterodosso rispetto ai canoni della buona
condotta: stabilità monetaria, equilibrio del bilancio,
allentamento della pressione fiscale. Ciò pone limiti
rigidi agli impieghi sociali del reddito: ai consumi e
agli investimenti pubblici. A questi limiti esterni
fa riscontro una forte ripresa delle spinte
"galbraithiane" alla promozione della domanda privata,
di beni e di servizi, necessaria per assorbire le
immense potenzialità produttive aperte dalle nuove
tecniche dell'informazione e della comunicazione. Per
converso, nel settore pubblico emerge con sempre
maggiore evidenza la "malattia dei costi" diagnosticata
a suo tempo da Baumol: il divario tra l'aumento dei
costi del lavoro e l'aumento della "produttività":
concetto, questo, privo di senso per gran parte di beni,
come quelli pubblici, che si esprimono qualitativamente
e non quantitativamente. Accade così che nel
tempo stesso si accresca la pressione verso l'aumento
della domanda privata, e si restringano gli spazi e
aumentino i costi di quella pubblica. E dunque,
l'equilibrio tra beni privati e beni pubblici si sposta
a vantaggio dei primi. Le conseguenze di questo
squilibrio sono devastanti. Negli Stati Uniti, negli
ultimi venticinque anni, gli investimenti pubblici sono
stati dimezzati, e si investe oggi nelle infrastrutture
pubbliche meno che in qualsiasi altro paese del gruppo
dei G 7 (per esempio, un terzo di quanto si investe in
Giappone). Ciò è tanto più sconcertante in quanto si
tratta del paese leader della Nuova Economia, in un
periodo in cui investimenti e soprattutto consumi
privati hanno segnato un ritmo trionfale. In Europa,
dove pure vi sono state severe contrazioni della spesa
pubblica, il fenomeno della pubblica taccagneria può
essere addebitato alle politiche restrittive della
domanda, praticate per garantire la stabilità
finanziaria. Ma in America non c'è stata alcuna politica
restrittiva della domanda che anzi, grazie a un afflusso
di capitali da tutto il resto del mondo, ha potuto
espandersi senza riguardo a un deficit commerciale
mostruoso. Questa contrazione degli impieghi
pubblici, relativamente alle risorse totali e agli
impieghi privati, spiega il degrado delle grandi
infrastrutture denunciato quasi in tutti i paesi del
capitalismo avanzato: un degrado che si manifesta
proprio quando, in un'economia sempre più opulenta e
complessa, si fanno più pressanti i bisogni collettivi
di reti di trasporto, di strutture urbane non
congestionate; e, soprattutto, di istruzione e di
ricerca. Un solo esempio: tra il 1973 e il 1993 le spese
per ricerche sviluppo e formazione nel settore privato
dell'economia americana sono scese dal 14 al 12% del
PIL; e quelle pubbliche, addirittura dall'11 al 6%. Non
deve stupire che in America, ma anche in Europa e anche
da noi, si manifesti con preoccupante evidenza il
ritorno in massa dell'analfabetismo. Questa
divaricazione tra produzione privata e produzione
pubblica è destinata, prima o poi, a provocare effetti
negativi di grande portata sulla stessa produttività del
settore privato. Non si deve dimenticare la funzione
fondamentale svolta dagli investimenti pubblici in
infrastrutture (l'esempio è quello delle ferrovie) nello
sviluppo storico del capitalismo americano; o delle
spese pubbliche, purtroppo per fini militari, nella
ricerca e sviluppo (esempi ovvii, l'elettronica e
Internet) nella più recente fase di espansione
dell'economia americana e mondiale. Venute meno queste
spinte, una economia sempre più "privatistica" tende a
rinchiudersi in un orizzonte temporale sempre più
ristretto. L'indice più significativo di questo
rattrappimento è il dimezzamento del tasso di risparmio
nella media dei paesi OCSE: tra la metà degli anni
Settanta e l'inizio degli anni Novanta, dal 15 al 7%; e
oltre la metà di questo declino è dovuto alla
contrazione del risparmio pubblico. Un capitalismo senza
risparmio! Un capitalismo tutto basato sul debito! È
sostenibile? La risposta ovvia è no. E l'ovvia
conseguenza dovrebbe essere quella di un riequilibrio da
perseguire attraverso la ricostituzione di margini di
risparmio e di investimento nel settore dei beni
pubblici. Accade invece proprio il contrario. Il
"turbocapitalismo" non si limita a comprimere il settore
pubblico. Lo invade. La controffensiva capitalistica,
verso la fine degli anni Settanta, si annuncia sotto il
segno non solo dello Stato minimo, ma di un settore
pubblico radicalmente mercatizzato. Com'è ovvio, le
prime trincee ad essere investite dalle
"privatizzazioni" sono le imprese pubbliche operanti in
forma monopolistica o concorrenziale, sul mercato. Più
che di una conquista, si tratta qui di una riconquista.
Ma l'offensiva va molto più in là. Dopo aver smantellato
le strutture dello Stato dirigista, essa investe
direttamente le roccaforti dello Stato del benessere: la
previdenza sociale, la sanità, l'istruzione
pubblica. Tra la fine degli anni Settanta e
l'inizio degli Ottanta l'assalto è stato particolarmente
virulento sulle due sponde dell'Atlantico, sotto la
guida di Margaret Thatcher e di Ronald Reagan. Ma non si
trattava di un'offensiva improvvisa e
impreparata. Sul piano teorico, anzitutto, essa era
stata preceduta da un lavoro scientifico e culturale di
alta classe. I nomi più noti sono quelli di Frederik von
Hayek e di Milton Friedman. Ma forse la più
significativa e radicale avanguardia della nuova destra
è stata la scuola americana delle scelte collettive. La
sua culla è l'Università di Blackburg, in Virginia.
Sulla traccia di precursori come Down e Olson, un gruppo
di giovani e meno giovani economisti americani vi ha
sviluppato una ricca, coerente e rigorosa rivalutazione
dell'individualismo economico. I suoi presupposti sono:
una concezione secondo la quale la società non esiste
come soggetto (la signora Thatcher espresse poi questo
concetto nei suoi consueti termini icastici: "la
società? non esiste"), ma solo come aggregato di
individui e come somma di interessi individuali; e un
radicale economicismo, secondo il quale il comportamento
degli uomini è regolato dal principio della
massimizzazione: l'uomo è un essere economico e
massimizzante.
L'offensiva contro il
welfare state
Qui non è il caso di
ripercorrerne, neppure brevemente i lineamenti. Ma solo
di rilevare come dai semi di quelle premesse
"riduzionistiche" sia nata una ideologia combattiva,
rigorosa e pericolosa: il privatismo. Rigorosa, perché
essa muove da una critica serrata dei fallimenti dello
Stato (in particolare, della non neutralità della
burocrazia e della classe politica democratica,
portatrici entrambe di conflitti di interesse) e da un
brillante tentativo di correggere i fallimenti del
mercato, onestamente riconosciuti, non con la sua
limitazione, ma con la sua estensione. Gli squilibri tra
produzione di beni pubblici e produzione di beni privati
infatti, secondo questa concezione, non si riducono
restringendo l'area del mercato, ma allargandola. Le
diseconomie esterne, i costi sociali causati dal
mercato, il mercato stesso può assorbirli. Se si vuole
esprimere il concetto in una forma caricaturale ma non
disonesta si può dire che i guasti del mercato possono
essere comprati e venduti (i rifiuti, per esempio,
possono essere smaltiti in un mercato dei
rifiuti). Si tratta però di una concezione pericolosa
perché, come molti hanno argomentato (Hirschman,
soprattutto) essa ignora la fondamentale differenza tra
la logica del mercato - una logica negativa, fondata
sulla libertà della defezione, dell'exit - che non
permette di cogliere le interdipendenze delle relazioni
sociali - e la logica politica, che sa gestirle
attraverso la partecipazione democratica. Il pericolo
sta appunto nella perdita dell'interdipendenza, che
costituisce la vera ricchezza della società. Questa
perdita disorganizza la società, pretendendo di ridurre
a preferenze individuali sommabili quelle preferenze
collettive che si formano solo attraverso il confronto
pubblico, la discussione aperta e - solo in ultima
analisi - la votazione. Ora, proprio dalle preferenze
collettive (e sempre più man mano che le società
diventano più complesse) dipende la loro capacità di
fronteggiare i rischi e di vincere le sfide. Ci
torneremo tra poco. Questa ideologia però - ed è il
punto più importante - non era soltanto il frutto di un
astratto lavoro teorico. Lo stesso lavoro teorico
esprimeva, razionalizzandole, ragioni e passioni che
andavano maturando rapidamente e concretamente nel corpo
della società. Il privatismo è infatti una corrente di
massa, alimentata dalla dissoluzione dei vecchi blocchi
sociali formatisi nella società industriale, sotto le
nuove spinte della mondializzazione e della
ristrutturazione produttiva. Allentatisi i vincoli
determinati dalle tecniche (come l'organizzazione
fordista), dalle strutture di classe (come il
proletariato), dalle obbedienze ideologiche (come il
comunismo) una società in crescita economica ha generato
una poderosa domanda di promozione, di autonomia, di
"libertà di scegliere" individualmente. L'esplosione
delle diseguaglianze ha scompigliato la classe media del
grande consenso, una parte consistente della quale ha
cominciato a cercare fuori della protezione dello Stato
le occasioni della sua promozione sociale. Il mercato
era l'istituzione più vicina e disponibile ad
intercettare questa formidabile domanda. Il privatismo
si è dunque identificato con il mercatismo ed è subito
diventato antistatalista. Lo Stato, indebolito dalla
mondializzazione e pressato dalle esigenze di equilibrio
finanziario, è apparso sempre più come "prenditore" che
come "erogatore": dunque, come ostacolo alle istanze di
promozione. La sinistra riformista e socialdemocratica,
legata tradizionalmente alla funzione regolatrice e
redistributrice dello Stato, ha subìto il primo
contraccolpo politico di questa nuova "grande
trasformazione" sociale.
L'attacco allo Stato
sociale portato con particolare veemenza in America e in
Gran Bretagna negli anni Ottanta dalla destra liberista
si è scontrato negli anni Novanta con la resistenza
democratica negli Stati Uniti e socialdemocratica in
Europa. Le vittorie socialdemocratiche in Europa, e i
"pareggi" negli Stati Uniti, indicano certamente la
forza di questa resistenza opposta da ampi strati della
società al programma massimo di smantellamento dello
Stato sociale e di instaurazione di una società di
mercato. Ma la spinta propulsiva del privatismo non è
affatto esaurita. Dappertutto, la nuova destra
privatista e liberista è all'offensiva. E dappertutto la
sinistra è sulla difensiva. Essa non dispone infatti di
una sua visione autentica, di una sua alternativa
costruttiva al privatismo, se per alternativa non si
intendono le esortazioni a non esagerare, ma un concreto
modello di organizzazione sociale. Per ora, le sue
"terze vie" somigliano più agli ospedali da campo per
riparare ai guasti del capitalismo ruggente che a una
proposta di sviluppo che consenta davvero di rendere la
crescita compatibile con la sostenibilità ecologica e
con la coesione sociale. Anche dal punto di vista
culturale, la sinistra riformista gioca di rimessa,
accettando talvolta, con patetico mimetismo manageriale,
le filosofie privatistiche in salsa sociale, e
rinunciando a una propria iniziativa progettuale fondata
sui suoi valori e sui suoi principi. Ora, una
resistenza essenzialmente passiva non dura a lungo.
Senza un'alternativa che dia una risposta positiva ed
efficace alle nuove istanze di autonomia individuale,
ristabilendo però nuove regole di coesione sociale,
quella offensiva riprenderà con rinnovata forza,
portando in avanti un processo di dissoluzione della
società civile che è già cominciato. Se si vuole
costruire quella risposta, occorre valutare con
chiarezza i rischi che quel processo
comporta.
I rischi di una società
mercatizzata
Abbiamo già rilevato, anzitutto,
i danni che la miopia del capitalismo arreca al capitale
sociale e umano che ne costituisce il
fondamento. Nel caso dei grandi rischi
ecologici non si dovrebbe parlare di miopìa, ma di
cecità. Se un giorno, dopo qualche milione di mutazioni,
una nuova stirpe di dinosauri dovesse regnare sulla
Terra, essa dovrebbe constatare che, a differenza dei
loro antenati, estinti non per colpa loro, ma per pura
sfortuna, dalla caduta di un asteroide, gli uomini
l'estinzione se la sono fabbricata proprio con le mani
loro: una catastrofe accuratamente programmata. Volendo
descrivere la strategia dell'accumulazione distruttiva
che chiamiamo crescita con criteri di mercato, dovremmo
dire che il mercato finanziario capitalistico sconta il
rischio ecologico con saggio di interesse zero. In altri
termini, lo ignora. Qui non abbiamo neppure
sfiorato questo tema perché, a dire la verità, esso non
è specifico del turbocapitalismo, né del capitalismo
tout court, ma dell'intera società industriale. La sola
cosa che si può dire è che l'accorciamento
dell'orizzonte economico proprio del capitalismo
contemporaneo aggrava considerevolmente questo rischio
universale. Qui ci interessano soprattutto i
rischi e i guasti sociali. L'essenza del privatismo,
come abbiamo già osservato, consiste nel "ridurre" i
beni pubblici a beni privati, mutilandone la loro
natura, che nasce dall'interdipendenza.
L'interdipendenza esige che essi siano usati da tutti,
senza esclusioni. Ogni esclusione provoca una loro
degradazione. L'appropriazione privata di un bene
pubblico provoca una diminuzione del benessere
sociale. In questo senso va intesa la profonda
differenza tra privatismo e individualismo. L'individuo,
così come è concepito nelle filosofie del cristianesimo
(come persona) e dell'illuminismo (come cittadino) è un
"sistema aperto" alla società. Per usare le parole di
Amartya Sen, la libertà individuale è un impegno
sociale. L'individuo non è un sistema chiuso
nell'egoismo privato o familiare. È un soggetto che
persegue, sì, il suo interesse personale, ma non resta
cieco riguardo alle conseguenze sociali delle sue azioni
- che si tratti di congestione del traffico o di
accumulazione dei rifiuti - comprendendole nel raggio
del proprio interesse: il che implica che egli si apra
verso l'esterno allo scambio delle informazioni, al
confronto delle preferenze, al confronto delle idee, al
dialogo. L'individuo è un animale sociale: responsabile
e tollerante. Non si aspetta dalla benevolenza del
macellaio la sua cena; ma comprende il macellaio
nell'ambito di quella caratteristica relazione umana che
lo stesso Adam Smith chiamava "simpatia" (e che, secondo
lui, non si contrappone all'interesse, ma lo comprende).
Per tale via l'individuo è indotto a considerare la sua
libertà come una fonte inesauribile di scelte
impegnative, alla stregua delle quali misura la sua
statura; e non solo come una garanzia di essere lasciato
in pace per farsi i fatti suoi; o come un salvacondotto;
o, al peggio, come una "licenza di
uccidere". L'individuo è, in altri termini, un
agente sociale complesso. Egli opera contemporaneamente
su due piani e usa due modi della tastiera sociale.
Opera sul mercato con la logica della defezione, della
libertà negativa, di comprare o di non comprare, di
vendere o di non vendere, indipendentemente da ciò che
fanno o vogliono gli altri. Opera nella società con la
logica della partecipazione, della libertà positiva di
concorrere con gli altri alla formazione delle decisioni
comuni. Ora, la riduzione della società a mercato
comporta una destrutturazione sociale devastante. La
logica della defezione, infatti è sostenibile soltanto
se contenuta e compensata in una superiore logica della
partecipazione. La competizione tra interessi
individuali è una forza sociale costruttiva e dinamica
soltanto se compresa in un sistema sociale di
cooperazione. Il mercato va contenuto in un contesto di
relazioni non mercantili. Solo se vi sono cose che non
possono comprarsi e vendersi (regole, principi, valori;
arbitri, giudici, deputati) la compravendita genera
l'attivazione di quel processo di concatenazione
paradossale virtuosa (la mano invisibile) per cui anche
i vizi privati generano pubbliche virtù. Altrimenti i
vizi privati, cumulandosi in un processo illimitato,
ingigantiscono in vizi sociali. La logica della
defezione, se estesa a tutte le relazioni sociali, rende
impossibili relazioni sociali stabili, sicure,
pacifiche, generalizzando la secessione. La
generalizzazione dei comportamenti mercatistici e
privatistici genera aggressività e criminalità. Come
Karl Polanyi ammoniva, la società di mercato è un'utopia
perversa, una distopìa. I segni di una tale possibile
destrutturazione non mancano. Le tendenze alla defezione
e alla secessione sociale si manifestano in una
condizione endemica di ostilità, di irritabilità, di
aggressività verbale e fisica, di ineducazione civile.
In comportamenti di asocialità esibizionistica, come il
vandalismo, come i graffiti, per non parlare
dell'espressionismo ludico di certe manifestazioni
teppistiche travestite da campagne di mobilitazione
politica; e, naturalmente, del terrorismo. Si
manifestano nel dilagare della pornografia, che è
anch'essa, non c'è bisogno di disturbare Freud,
un'espressione di aggressività. Nelle forme diffuse di
superstizione: miti estatici, rituali esoterici. Fino
alle forme più massicce e devastanti della criminalità
"organizzata" e a quella defezione tragica che è la
droga, e che investono ormai parti rilevanti della
popolazione mondiale e della sua
ricchezza.
Una deriva
plebiscitaria
Il gioco competitivo deve
dunque essere compreso in un gioco superiore. E questo
non può che essere il gioco politico. Nei giochi
politici più antichi il mercato era un sistema
marginale. Stava al di fuori delle "mura" della città,
all'inizio anche non metaforicamente. Il mercante era
figura ambigua, non rassicurante. La modernità ha
realizzato un equilibrio tra mercato e politica, grazie
al capitalismo e alla democrazia, le due forze che la
fondano e la promuovono, in un rapporto - come direbbe
Kant - di insocievole socievolezza. Ora, è
proprio questo equilibrio - il vero segreto della
superiorità dell'Occidente - che si sta rompendo e
corrompendo sotto i nostri occhi. La progressiva
riduzione dei beni pubblici a beni privati rischia di
intaccare questo bene pubblico supremo che è la
democrazia politica. La ricchezza della
democrazia sta nel fatto che essa - come abbiamo detto -
coglie positivamente la caratteristica essenziale della
complessità: l'interdipendenza dinamica. Società
stratificate e immobili sono inquadrabili in schemi
politici autoritari, piramidali, gerarchici. Le società
capitalistiche hanno bisogno di un sistema politico
flessibile e in costante ricambio: un processo
cooperativo e partecipativo che si svolga attraverso un
confronto continuo e aperto. In questo confronto sta
l'essenza e la ricchezza della democrazia. È proprio
questo che non capiscono coloro che si appellano
continuamente alla "sovranità del popolo", intesa
semplicemente come conta dei voti o, più sbrigativamente
e immediatamente, dei sondaggi: come radiografia dello
stato delle preferenze individuali. Insomma, a una
democrazia plebiscitaria, nella quale le grandi
istituzioni della mediazione democratica - partiti e
parlamenti - sono svuotate delle loro funzioni
decisionali e sostituite da riproduzioni e
rappresentazioni mediatiche istantanee dell'opinione
pubblica. Il rischio supremo della mercatizzazione
privatistica è l'evacuazione della politica democratica.
Se la politica diventa il puro e semplice suggello di
una gara che si svolge sul mercato, al popolo sovrano
non resta che esprimere un voto per sanzionare il premio
al vincitore. Proprio come nel gioco privatistico del
Grande Fratello. A quel punto, possiamo concordare con
la Vecchia Signora: la società? non
esiste.
Quali nuove
regole?
Scopo di questo saggio era di
esplorare, sia pur sommariamente, le principali
antinomie che possono spiegare il paradosso della
crescita: il fatto, cioè, che essa si accompagna, in
questa fase della storia del capitalismo avanzato, con
segni crescenti di malessere sociale, di "pubblica
infelicità". Per tentare di spiegare questo paradosso
abbiamo lasciato da parte due formidabili problemi:
quello degli squilibri della crescita mondiale, che
lascia fuori del suo raggio miliardi di persone affamate
e ammalate; e quello dei suoi effetti distruttivi sulla
sostenibilità dell'ambiente umano. Abbiamo constatato
come, dopo aver provocato nella sua prima parte il più
immane massacro della storia, il Novecento abbia
generato, per una buona metà della seconda parte, la sua
stagione più felice, ma limitata a una minoranza
dell'umanità: due decenni, gli anni Cinquanta e
Sessanta, di prosperità economica e di progresso
sociale. Per quanto limitatamente a una parte del mondo,
quei decenni potevano sembrare una promessa di felicità
anche per il resto del mondo. Abbiamo tentato di
individuare il segreto di quel successo nel felice
incontro del mercato capitalistico con una politica
democratica, di fronte ai fallimenti dei tentativi di
instaurare regimi di capitalismo senza democrazia, e di
democrazia senza capitalismo. Abbiamo constatato
quanto difficile e vulnerabile fosse quell'equilibrio.
Esso si basava su certi assetti dell'organizzazione
internazionale e dell'organizzazione industriale che
sono entrati in crisi verso l'inizio degli anni
Settanta. Un capitalismo messo alle strette da pressioni
esterne e interne sui costi della produzione ha reagito
con una controffensiva di ampia portata, mondiale e
tecnologica, che ha pregiudicato quell'equilibrio,
aprendo una nuova fase storica di instabilità, nella
quale viviamo: ansiosa e rischiosa. Non è scopo di
questo saggio formulare previsioni e fornire precetti.
Soltanto, è possibile sostenere, a conclusione,
l'impossibilità di restaurare i vecchi equilibri, a
causa dell'irreversibilità dei processi storici; e la
necessità, quindi, di costruirne dei
nuovi. Poiché gli squilibri si sono prodotti
nel senso di una ri-mercatizzazione dell'economia, che
minaccia di incrinare la coesione sociale e la stessa
democrazia politica, la direzione lungo la quale si
dovrebbe ristabilire l'equilibrio è una ri-regolazione,
ma compatibile con i nuovi assetti tecnologici che
esigono flessibilità e con le nuove aspirazioni sociali
alla promozione individuale. Proviamo solo a indicare
le piste lungo le quali queste nuove regole possono
essere costruite. La prima è la ricostruzione di un
ordine monetario e finanziario internazionale, sconvolto
dalla deregolazione degli anni Settanta e Ottanta, della
moneta e dei capitali, che fa gravare una minacciosa
nuvola nera sull'orizzonte della economia
mondiale. La seconda è una nuova regolazione dei
mercati del lavoro, attraverso una qualificazione e una
gestione attiva dell'offerta, che permetta di realizzare
la piena occupazione senza sacrificare la buona
occupazione e senza rassegnarsi alle ricrescenti
disuguaglianze. La terza è la costituzione di
un sistema di programmazione nazionale, basata sulla
politica della spesa, sulla politica fiscale e sulla
politica dei redditi, che consenta di realizzare una
allocazione delle risorse più equilibrata tra i gruppi
sociali e tra beni pubblici e privati. Ciò richiede la
definizione di un quadro coerente di obiettivi e di
traguardi, una visione del modello di sviluppo
desiderato in una prospettiva di medio periodo, e una
indicazione rigorosa degli strumenti che si intende
usare per conseguirlo. La quarta è lo sviluppo di un
terzo sistema di economia associativa, affiancato ai due
grandi sistemi del mercato e dello Stato, alimentati
dalla contribuzione e dall'impegno volontario dei
cittadini, che produca attività sociali e culturali
prive del fine di lucro. La ri-regolazione ha
bisogno di nuovi strumenti, flessibili e non
burocratici. Essa è però necessaria, se si vuole
impedire una privatizzazione destrutturante della
società, con gravi conseguenze per la coesione sociale e
per la democrazia. Ovviamente, la condizione
fondamentale è che all'umanità non venga a mancare la
Terra sotto ai piedi. Il tema che è rimasto fuori della
portata di questo saggio è, dunque, quello veramente
"vitale". |